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Frate Indovino

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Serve un sussulto di umanità

03 marzo 2020
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La guerra siriana, iniziata nel 2011, è la cattiva coscienza del mondo intero. Le colpe sono equamente ripartite tra i diversi attori. I veri perdenti sono sempre e solo i civili.

Un inizio d’anno 2020 decisamente difficile per la convivenza internazionale. Tra crisi economiche incipienti, il confronto USA-Iran, il coronavirus e la nuova ondata delle migrazioni, non possiamo dormire sonni tranquilli. In particolare preoccupa oggi tutti noi europei la questione turcosiriana e la conseguente ripresa del flusso delle popolazioni in fuga dalla guerra.

Nello scacchiere siriano si sta giocando una Terza guerra mondiale. Non a pezzi, come aveva detto papa Francesco in visita al Sacrario di Redipuglia nel settembre 2014, ma una guerra mondiale concentrata in pochi chilometri quadrati. Tutti i principali leader regionali e mondiali sono presenti sul posto, a parte forse l’India.

Nove anni di guerra


La guerra era scoppiata nel 2011, durante la cosiddetta “primavera araba”, che in realtà sarebbe più giusto chiamare “transizione araba”. Ci furono violente rivolte contro il presidente siriano Assad, che ereditava dal padre uno stile di gestione del potere dittatoriale, e che, passato un breve periodo iniziale di riforme soffocate dal suo stesso partito, si ritrovò ad essere egualmente un “uomo forte”, anzi “fortissimo”. Le rivolte furono soffocate nel sangue, in particolare a Homs, e cominciò all’epoca una violentissima guerra senza esclusione di colpi. I “ribelli”, che il regime di Damasco definisce “terroristi”, conquistarono rapidamente circa il 90 per cento del territorio siriano, e sembrava che Assad e l’esercito regolare fossero condannati al collasso. I jihadisti, in massima parte contrari ad Assad, crebbero d’importanza, anche per l’appoggio più o meno esplicito di Paesi quali il Qatar e la Turchia. Nacque il Daesh, il presunto Stato islamico di al-Baghdadi. Sullo sfondo c’era l’annosa questione della rivalità nella regione tra sunniti (capeggiati dall’Arabia Saudita) e sciiti (alla cui guida ci sono gli iraniani). Assad è alauita (una “setta” sciita che in Siria conta il 15 per cento della popolazione) ed è alleato “naturale degli iraniani e degli Hezbollah libanesi. A questo punto intervenne la Russia, che decise, il 30 settembre 2015, di rispondere favorevolmente alla richiesta di aiuto del presidente Assad.

I curdi

Da quel momento la guerra ha cambiato volto, e l’esercito regolare ha saputo riconquistare buona parte del territorio siriano: attualmente controlla circa l’85 per cento del Paese. La Russia è intervenuta sul terreno, ma soprattutto nei cieli. Il Daesh, dopo quattro anni di lotta contraria ad esso sostenuta da una coalizione a guida statunitense, ha portato alla fine dello Stato islamico, ma soprattutto per il contributo sul terreno dei curdi siriani (che abitano una regione al confine con la Turchia chiamata Rojava). Ed è questo dei curdi uno dei problemi più gravi della regione, che ha causato l’intervento diretto della Turchia nel conflitto. In effetti il popolo curdo, che non ha un territorio indipendente, è diviso tra Turchia, Siria, Iran e Iraq. In Turchia c’è la maggior parte di essi, invisi al capo dello Stato Erdogan, il quale ritiene, assieme a moltissimi compatrioti, che il popolo curdo sia la causa di tutti o quasi i suoi mali. Per cui combatte aspramente tutto ciò che è curdo, in particolare il PKK, il partito di Abdullah Öcalan, che ha conosciuto anche le nostre prigioni italiane.

La questione dei migranti

In questo contesto, nella grave crisi del 2015, susseguente alla “riconquista” del territorio da parte delle truppe regolari siriane, si sono generate delle masse di migranti che la Turchia ha “orientato” verso l’Europa. Abbiamo tutti negli occhi le immagini delle lunghe file di migranti in massima parte siriani che percorrevano le vie ferroviarie dei Balcani per cercare di raggiungere l’Europa centrale. Ricordiamo i fili spinati ungheresi e sloveni, ricordiamo il milione di siriani accolti dalla Germania. Poi il flusso venne interrotto grazie a un accordo tra la Unione europea e la Turchia, che portò Ankara a trattenere sul suo territorio una massa di tre milioni di siriani e iracheni in cambio di denaro sonante, da 3 a 6 miliardi di euro all’anno. La questione ora si sta rinfocolando, ed Erdogan minaccia di scaricare verso la frontiera greco-bulgara (in realtà militarizzata e controllatissima) qualcosa come quattro milioni di siriani. La Turchia vuole l’appoggio europeo anche nelle questioni militari: il fatto è che, nella sua “riconquista” del territorio, Assad e i suoi alleati russi si stanno scontrando con la resistenza turca nella regione di Idlib, città vitale per la Siria, perché sull’autostrada che collega le tre principali città siriane, Damasco, Homs e Aleppo. Qual è il disegno della Turchia? “Scaricare” i tre o quattro milioni di profughi siriani proprio in quella regione, tenendo nel contempo a bada i curdi. Per questo sta ricattando l’Europa che, avendo ceduto una volta, probabilmente cederà ancora, non potendo “sopportare” una nuova ondata di migranti come quella del 2015. E gli Stati Uniti gongolano, perché in questo modo allontanano i turchi dagli iraniani e dai russi, e li riavvicinano a quella Nato della quale Ankara fa parte, anche se sempre con una certa riluttanza.

Il capitolo delle colpe

Nessuno degli attori presenti sullo scenario siriano sembra perciò esente da colpe. Certamente in testa vi è il regime dittatoriale di Assad, che dovrà rispondere dinanzi alla storia delle sue responsabilità per una decina di milioni di migranti (5 all’estero, altrettanti interni), per 400 mila morti, per un numero innumerevole di feriti. Ma la responsabilità è condivisa dagli altri attori sulla scena, a cominciare dagli Stati Uniti, ovviamente, che non hanno mai giocato chiaramente la loro battaglia, arrivando a dare cospicui finanziamenti a gruppi che poi si sono rivelati jihadisti. Anche se ora Trump vorrebbe liberarsi da quelle che lui ha definito «stupide guerre» (certo non stupide per le vittime), in realtà gli statunitensi sembrano interessati a proteggere i propri interessi economici, più che strategici, nella regione. Delle responsabilità turche si è già ampiamente parlato, così come di quelle russe. Vladimir Putin, da abilissimo stratega, grazie all’intervento in Siria è riuscito a riprendere un ruolo centrale in Medio Oriente, ma ora si trova di fronte a relazioni complesse coi suoi “alleati” siriani, iraniani e turchi. Pure i sauditi (e le altre monarchie del Golfo) hanno le loro responsabilità non tanto militari, quanto strategiche, anche per i finanziamenti arrivati ai jihadisti. L’Iran ha evidentemente la sua dose di colpe, avendo cercato di costruire un “croissant sciita” da Teheran a Beirut. Infine, anche noi europei abbiamo le nostre responsabilità, in particolare per la politica molto ondeggiante dei diversi Paesi, e per avere ceduto a Erdogan sulla questione dei migranti, il che ci espone ai continui ricatti della Turchia. E non si possono dimenticare le colpe degli israeliani, che dal 1948 sono tra i principali fattori di instabilità della regione.

Soldoni

E non bisogna dimenticare, nel capitolo delle colpe, quello dei potentati economici del mondo intero. In particolare, come non si stanca di denunciare il papa, c’è il commercio delle armi, che arrivano nella regione in mille rivoli, anche da Paesi come l’Italia che ha ottime industrie di armamenti. Non vanno poi dimenticate le società di mercenari, che oggi vengono chiamati contractor, ma che sono pur sempre dei combattenti, provenienti da mezzo mondo: dal Sudan alla Cecenia, dall’Arabia Saudita all’Iraq, dall’Indonesia al Pakistan e via dicendo. E poi c’è il capitolo principale, quello del petrolio, che fa gola a tutti, e per il quale non si esista a scatenare guerre di ogni genere. Nulla di quello che è accaduto sarebbe successo se la regione non galleggiasse su giacimenti di oro nero e di gas.

Quali prospettive?

In tutto questo scenario, che succederà? L’unica cosa certa, l’unica, è che a soffrire sono i più deboli, gli inermi, queste masse enormi di profughi che si spostano da una regione all’altra nell’indifferenza, o quasi, delle istituzioni locali e internazionali. È su questi uomini e donne, su questi bambini che dovrebbe concentrarsi il lavoro della politica per il bene comune. Ma poco viene fatto in realtà. L’Europa, cioè tutti noi, sembriamo più interessati ad evitare nuovi arrivi di migranti (provenienti dalla Siria, ma anche dall’altro bubbone, quello libico) che a salvare vite umane. Nei fatti, l’Europa è presente sullo scacchiere siriano con piccoli gruppi di soldati
e di “consulenti” che collaborano con l’una o l’altra fazione, ma non hanno nessuna influenza profonda. Serve un sussulto di umanità. L’opinione pubblica dovrebbe premere sui governanti per “costringerli” a risolvere la questione siriana una volta per tutte.

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