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Il lupo fuori di noi e dentro di noi

09 febbraio 2023
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VIAGGIO IN UCRAINA

Przemyśl, frontiera polacco-ucraina. Siamo i soli non-ucraini in mezzo al popolo migrante. Donne e bambini, e qualche anziano. Occhi turbati, spaventati, cerchiati, esausti, bastonati, arrabbiati, ma anche occhi pazienti. I bambini, al solito, giocano con la neve, scherzano tra di loro e con le mamme, se la prendono (a pallate) con il posto di polizia di frontiera. Il saio dei tre cappuccini (fr. Matteo Siro, Ministro della provincia cappuccina dell’Italia centrale, fr. Carlo Maria Chistolini, presidente della Fondazione Assisi Missio ETS, e fr. Rafał Pysiak, Vicario della provincia polacco-ucraina), coi quali viaggiamo attira l’attenzione di tanti, attenzione riverente. E la coda non avanza, siamo sempre allo stesso punto, il posto di frontiera resta chiuso, e noi moriamo dal freddo.
Si accendono come fiamme improvvise brandelli di conversazione con l’uno o con l’altra, la gente è riservata da queste parti. Le donne sono vestite all’occidentale, ma con tagli d’abito e acconciature che tradiscono la loro provenienza. Hanno la loro dignità nel trascinare valigie enormi e infanti colpiti dal ballo di san Vito, ma trascinano soprattutto storie dolorose, lutti e distruzioni, il mostro della guerra. Il fardello più pesante; mariti e figli al fronte. E poi il lavoro latitante, il futuro avvolto nelle brume dell’incertezza. Un’infinità di domande, e la spossatezza di non trovare risposte. Poi, d’improvviso, la dogana apre. Il treno è moderno, caldo e accogliente. La neve rende indistinguibile la Polonia dall’Ucraina, neve che sembra allontanare la guerra. Si avanza molto lentamente, dinanzi a noi 600 chilometri e una dozzina d’ore di viaggio.
Kyiv, Stazione Pasazhyrskyi, due ore di ritardo, sono le 22 e la città sembra spettrale, tanto le luci sono basse. Attraversiamo la città, passiamo dalla riva destra a quella riva sinistra del Dnipro. Passiamo per Piazza Majdan, dov’ero stato nel 2014, in occasione della cacciata del presidente filorusso e allo scoppio della prima fase della guerra nel Donbass. Non c’è anima viva, nevischia. Arriviamo al convento, i cappuccini ci hanno aspettati per la cena, un momento conviviale: «Nessun frate se n’è andato dall’Ucraina, nessun convento è stato colpito – ci dicono −. Nel nostro quartiere c’è stato solo un morto per i missili arrivati nei primi giorni della guerra. L’onda d’urto l’ha fatto cadere dal suo balcone su un’auto in fiamme. Poi nessun altro morto, salvo un paio di reclute morte in trincea nel Donbass».

Dai cappuccini di Kyiv
Dopo la messa mattutina, coi frati visitiamo i sotterranei dell’ampio complesso che, mattone dopo mattone, hanno costruito attorno alla chiesa. Qui sotto hanno trascorso i primi giorni della guerra, quelli in cui non si capiva ancora se i russi avrebbero sfondato nella capitale, se i missili avrebbero trasformato le case del quartiere in colabrodo. Fr. Sergiej Kippa è il Custode d’Ucraina: «Abbiamo condiviso tutto quanto avevamo, abbiamo sigillato porte e finestre per non lasciar trasparire nessun raggio di luce, non guardavamo nemmeno l’orologio per sapere l’ora, siamo stati attenti a rispettare la regola delle due pareti, cioè frapporre due pareti fra l’esterno e la propria posizione, per evitare lo spostamento d’aria conseguente alle esplosioni. Abbiamo imparato a gestire la nostra paura, cercando di assorbire, di prosciugare quella altrui. In realtà qui la guerra non è arrivata materialmente, ma psicologicamente siamo in pieno conflitto».
Proprio nel momento in cui stiamo per uscire dalla cripta, la sirena dell’allarme squarcia l’aria. Ce la prendiamo comoda, ma ci pensa una vicina esplosione – senza dubbio un colpo della contraerea – a farci accelerare il ritorno nella cripta. Seduti di nuovo attorno a dolcetti, tè e bibite varie, riprendiamo a parlare. Questa volta è un cappuccino dalla lunga barba bianca, fr. Piotr Błażej Suska: «Ho espresso un voto: mi taglierò la barba solo quando la guerra finirà». Tutti ridono. «All’inizio della crisi – ci spiega – nei negozi non c’era più nulla, c’era stata una corsa agli approvvigionamenti nelle settimane in cui si temeva l’inizio della guerra. Ora i canali normali di arrivo delle merci sono stati riadattati, e quindi non c’è più penuria di beni materiali. Ma c’è bisogno di aiutare finanziariamente i milioni di famiglie che non hanno più uno stipendio regolare».
Nei locali dei cappuccini sono ospitate varie associazioni e scuole. Ci sono neocatecumenali e carismatici, c’è il Percorso Alpha dei protestanti, ci sono pure i terziari francescani regolari. La parrocchia conta 40 mila anime, di cui solo 400 cattolici, l’1 per cento. Ma qui vengono tutti, non solo cattolici, anche ortodossi e protestanti, oltre a un buon numero di atei o agnostici. Un frate racconta come, qualche settimana dopo l’inizio della guerra, un militare in licenza fosse venuto chiedendo di confessarsi, era la prima volta che lo faceva.
Fr. Sergiej ci informa sulla situazione, dopo consultazione di varie app che ha sul cellulare: «È stato un attacco massiccio: sembra che siano stati lanciati 76 missili dalle navi posizionate nel Mar Nero e nel Mar Baltico. E pare che la mira sia proprio verso la riva sinistra del Dnipro dove siamo, ma più in là, nella zona di Desuyan… La nostra contraerea è al lavoro, ne sta colpendo molti (alla fine saranno 60 i missili abbattuti), tra venti minuti possiamo di nuovo uscire».

Bucha, l’abominio
Usciamo verso il Nord della città, per visitare i luoghi dove i russi sono arrivati nei primi giorni di febbraio, e da dove poi sono stati scacciati. Noto che i meccanici di auto ormai armeggiano anche attorno a gruppi generatori… I semafori sono spenti, c’è poca gente in giro, il cessato allarme non è ancora risuonato, noi siamo usciti avendo alcune informazioni militari riservate, ci dicono così, chissà… Un missile proprio a Bucha dove siamo diretti. Nel loro primo attacco del febbraio 2022, i russi avevano deciso di cominciare l’attacco alla capitale Kyiv da Hostomel', fornito di un aeroporto militare tra i più grandi al mondo: accanto a questa pista c’era – ora non c’è più – la fabbrica dei più grandi aerei di trasporto al mondo, gli Antonov. Qui era parcheggiato il più grande aereo mai costruito al mondo, l’Antonov An-255, distrutto in uno dei primi giorni della guerra, un simbolo voluto dal Cremlino per demoralizzare gli ucraini e cacciare Zelensky dal potere.
Arriviamo poi nella “città nel bosco”, Bucha, tristemente nota per le orribili scene di stragi e torture che tutti noi abbiamo visto negli ultimi mesi. Riconosciamo alcune strade immortalate dai fotoreporter con i cadaveri ancora abbandonati sul selciato. Sono migliaia i civili che, al ricordo di quanto vissuto, rifiutano di ritornare. Alzando gli occhi, sulle pareti delle case civili si vedono i segni dell’impatto delle pallottole e dei colpi di mortaio. Al di là dei danni materiali, la battaglia c’è stata, breve e drammatica.
Entriamo nella freddissima chiesa di “Sant’Andrea il primo chiamato”, pareti bianche, vetrate nuove di zecca, trasparenti, non colorate. Manca ancora l’iconostasi, mancano le candele, manca tutto. C’è solo una serie di foto poggiate su cavalletti. Nella prima si riconosce Ursula von der Leyen accanto al prete Andreij, che ora è qui dinanzi a noi: nella foto si vedono ai piedi dei due una serie di sacchi da immondizia neri dai quali fuoriescono una mano, una scarpa, un gomito. Qui si è svolta una delle più gravi carneficine della prima invasione russa. O meglio, qui padre Andreij si è offerto di dare sepoltura alle decine di cadaveri che non avevano trovato posto nell’obitorio della città, e che restavano insepolte per le strade di Bucha. Padre Andreij ha ancora lacrime per la tragedia vissuta. Il 4 marzo, di fronte all’abominio di corpi lasciati all’aria aperta senza degna sepoltura, padre Andreij si è rivolto ai soldati russi offrendosi di dare una tomba ai morti abbandonati. Naturalmente non c’era ancora un cimitero attorno alla chiesa, ma il terreno era disponibile. Per cui, con l’aiuto di gente di buona volontà, ha scavato una larga trincea nella quale hanno deposto le salme di una sessantina di vittime chiuse precariamente in sacchi di plastica neri. Il 10 marzo il primo cadavere è stato sepolto. Naturalmente, appena liberata la cittadina, dopo il 30 marzo, sono arrivate anche le squadre incaricate di indagare sui delitti contro l’umanità eventualmente commessi dai militari russi, e quindi le sepolture sono state documentate adeguatamente.

Casa Padre Pio
In uno dei tre vertici della proprietà dei cappuccini di Kyiv, c’è una casa dedicata alle opere di solidarietà legate all’Ordine cavalleresco di Giovanni Paolo II, come indica il grande scudetto della blusa del loro responsabile, un bancario di 55 anni di nome Andreij (della comunità Maranathà), o lo stemma sulla macchina rossa di Ludmila, sposa di un medico militare, era ortodossa, si è fatta cattolica e, soprattutto, cappuccina, a suo dire. Con loro c’è pure una signora sulla sessantina, di nome Iulia, pure carismatica, che si occupa soprattutto di logistica.
I locali nuovi – cucine, sale da pranzo, sale da lavoro, camere da letto, lavanderia, infermeria… − non celano uno spirito patriottico che raggiunge la sua acme in una sala, quella del consiglio, dedicata ad un “museo della guerra”: «Serve per spiegarla ai bambini», spiega Ludmila. Su tutto incombe una grande colomba della pace disegnata e realizzata dai bambini. L’Ordine cavalleresco di Giovanni Paolo II svolge il suo lavoro a sostegno soprattutto delle famiglie dei soldati in guerra. Hanno cominciato le loro attività alla rivoluzione della Majdan, nel 2014, quando allestirono nella Casa Padre Pio un ospedale da campo per l’assistenza dei feriti. Hanno lavorato e lavorano grazie a dei “cappellani” e a dei “volontari”: i “cappellani” sono quasi tutti dei catechisti laici, perché tra i preti è difficile trovarne di liberi (i preti cattolici romani nel Paese sono circa 400, mentre i greco-cattolici quasi 1.500). Quindi sono dei laici che svolgono lavoro di assistenza spirituale nelle caserme, preparando i militari all’arrivo del sacerdote che officia i sacramenti. E sostengono chi soffre per la guerra con aiuti alimentari e sanitari, arrivando dove gli altri non riescono a operare. Il lavoro dei volontari avrebbe portato alla creazione di una vera e propria parrocchia dalle parti di Mariupol, evidentemente ora non si sa in che stato sia e se ancora funzioni. Particolare importanza avrebbe l’assistenza psicologica delle mamme che hanno i mariti in guerra, talvolta con l’aggravante di aver perso il marito.
In questa seconda fase della guerra, i volontari e i cappellani sono da preparare per affrontare due emergenze: quelle del Post Traumatic Desease, cioè dei traumi di guerra, e l’assistenza psicologica alle persone che hanno perso case, scuole e cose nel conflitto in corso. Sono due ondate di vittime che stanno per arrivare e che toccherà assistere. Ciliegina sulla torta: «Quando sarà liberato il Donbass dovremo aprire dei nostri centri di assistenza nella regione».
Infine, Ludmila, riuscendo a mostrarci un po’ di foto nonostante non ci sia elettricità, racconta dei corsi di cucina che fanno ai bambini e alle mamme per “elaborare il lutto” della perdita del papà cucinando il piatto preferito dal morto. Oppure racconta del campo estivo per bambini organizzato in Lituania, delle classi di arte-terapia per mamme e bambini, della necessità di associare ai momenti solidaristici e comunitari delle preghiere salvifiche. E così si può tagliare (sempre al buio) il nastro ufficiale per le iniziative del Centro Padre Pio.

Ritorno
Arrivati a Przemyśl, c’è ancora da passare il controllo polacco dei passaporti. Al freddo e al gelo (-6 per il termometro, percepita -14) ci mettiamo in fila che, meno male, avanza rapida. Poi la sorpresa, una volta arrivati fuori dai cancelli della dogana: una lunga fila di donne, vecchi e bambini è in attesa del controllo del passaporto, come noi stessi abbiamo avuto modo di sperimentare due giorni fa. Anche coloro che ora fanno la fila hanno dovuto attendere il treno in ritardo da Kyiv. Solo che per noi era mat-tina, per loro è notte fon-da e fa un freddo boia, che fa battere letteralmente i denti. È questa lunga fila notturna l’immagine che resterà nel nostro cuore e nel nostro sguardo, come il simbolo della resistenza e dell’incredibile tenacia degli ucraini.

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