Il punto

Le parole dell’anno

mercoledì 31 dicembre 2025 di fr. Andrea Gatto OFMCap
Fiducia, paura, rage bait, parasocial...

Secondo Treccani, la parola italiana del 2025 è «fiducia»: «In un anno segnato da incertezze geopolitiche e sociali, la fiducia emerge come risposta essenziale al diffuso bisogno di guardare al futuro con aspettative positive. Questo desiderio si fonda sulla forza delle relazioni umane: sviluppare legami solidi, affidabili e duraturi non solo tra individui, ma anche tra i cittadini e le istituzioni». 

Per Antonio Polito del Corriere della Sera, invece  è «paura» (un amico mi faceva notare, con una leggera ironia: Quando mai paura non è stata una parola adatta per ogni anno?). Paura del ritorno della guerra, paura del declassement (cioè di perdere benessere, o potere d’acquisto). «Abbiamo bisogno - scrive Polito - di qualcuno degno di fede che ci dica, come Giovanni Paolo II: «Non abbiate paura». In fin dei conti, non esistono i tempi cattivi. Gli uomini vivano bene, e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi». E cita sant’Agostino. 

Per l’Oxford Dictionary la parola inglese è «rage bait», che significa qualcosa come “esca per scatenare la rabbia”. Casper Grathwhol, presidente di Oxford Languages commenta così: «Il fatto che la parola rage bait esista e abbia visto una drammatica impennata nell’uso significa che diventiamo sempre più consapevoli delle tattiche di manipolazione in cui possiamo essere risucchiati online. Prima Internet era interessato ad attirare la nostra attenzione suscitando curiosità in cambio di qualche click, ma adesso assistiamo a un drammatico cambio di passo: la rete è impegnata a dirottare e influenzare le nostre emozioni, a capire come reagiamo. Sembra essere la naturale evoluzione del discorso attuale su che cosa significhi essere umani in un mondo tecnoguidato (…)». 

Per il Cambridge Dictionary, invece, la parola è «parasocial», parasociale - coniata già nel lontano 1953 da alcuni sociologi americani dell’Università di Chicago - che descrive un tipo relazione virtuale che si immagina di intrattenere con una persona notoria, un influencer o persino con un personaggio di finzione, magari generato dall’intelligenza artificiale. Quindi, in fin dei conti, una non-persona. 

Per il Merriam-Webster, un altro antico dizionario americano, la parola dell’anno sarebbe «slop», che letteralmente significa “sbobba”,  e indica un prodotto dell’IA ritenuto di scarsa qualità. Nella sensibilità onomatopeica degli anglofoni, infatti, questa parola suona “umidiccia”, e dà l’idea di qualcosa di schifoso da toccare. Il Dizionario lancia un messaggio al mondo dell’IA: «Quando si tratta di rimpiazzare la creatività umana, l’intelligenza artificiale non sembra essere poi così super-intelligente». 

Per i cattolici di tutto il mondo si è appena concluso l’anno del giubileo, dedicato alla «speranza»… e forse questa potrebbe essere stata la nostra parola dell’anno. 

Questi sono i giorni, gli ultimi dell’anno, in cui si è soliti fare un bilancio. 

Un annus horribilis, come qualcuno lo ha descritto, alla stregua di altri anni della storia (come il 2009 della grande crisi economica, il 2020 della pandemia COVID), segnati da forti instabilità geopolitiche e smisurate tragedie umane. 

In questa specie di scarabeo di parole, la storia del 2025 sembra fluttuare nel grande mare delle emozioni umane e della cosiddetta intelligenza artificiale. 

Da una parte il mare della rete, dove navigare a vista è sempre più difficoltoso. «A differenza di molte altre creazioni umane, l’IA può essere addestrata sui prodotti dell’ingegnosità umana e quindi generare nuovi “artefatti” con un livello di velocità e abilità che spesso uguagliano o superano le capacità umane, come generare testi o immagini che risultano indistinguibili dalle composizioni umane, quindi suscitando preoccupazione per il suo possibile influsso sulla crescente crisi di verità nel dibattito pubblico», così scrive una recente Nota del Dicastero per la Cultura e l’Educazione sul rapporto tra intelligenza umana e intelligenza artificiale. 

Tali artefatti, ciononostante, iniziano ad essere percepiti come spazzatura, una brutta, flaccida e pacchiana imitazione del genio umano (basta digitare il comando di comporre un’immagine, ed ecco che l’IA ti rifila una “cosa” che rasenta spesso il cattivo gusto). La rete, inoltre, espone il cuore dell’uomo ad alcune derive che devono interrogarci. I due fenomeni del rage bait e della para-socialità svelano l’intima fragilità dell’umano, che non trova ancoraggi nell’abisso misterioso e meraviglioso che egli è. Siamo manipolabili e soli, nell’arancia meccanica degli algoritmi, che ci fanno o imbestialire o addirittura innamorare. 

Nel «bel paese là dove ‘l sì sona» (Dante, Inf. XXXIII, 80) abbiamo scelto parole della navigazione interiore, che disegnano sulla mappa un ormeggio, la fiducia, che Dante direbbe «sustanza di cose sperate» (Par. XXIV, 64) e una red flag, la paura, che ne è l’antagonista. 

Si chiudono le porte sante del giubileo della speranza, il traino della fiducia cristiana, della fede umana, l’antidoto al veleno di ogni paura, la cera che ammortizza il canto delle sirene virtuali, delle chimere dei nostri bisogni surrogati. 

Il tempo nuovo che viene, con il passaggio a un altro anno, invita all’ascolto della voce “più umana” che Dio ha risoffiato nel cuore di ogni carne, nel primo vagito di Gesù. 

Scriveva Rilke al suo traduttore polacco: «Il nostro compito è quello di compenetrarci così profondamente, dolorosamente e appassionatamente con questa Terra provvisoria e precaria, che la sua essenza rinasca invisibilmente in noi. Noi siamo le api dell'invisibile. Noi raccogliamo incessantemente il miele del visibile per accumularlo nel grande alveare d’oro dell’Invisibile».