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Quattro coraggiosi

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La storia dei Cappuccini dell’Umbria, dalle origini (1530) fino alla fine del sec. XIX, enumera circa duecento Missionari che hanno operato in tutte le parti del mondo, con figure di prima grandezza sia per qualità umane che per santità. Dagli inizi del ’900, nella Chiesa Cattolica è stato disposto di affidare a ciascun Istituto Religioso un determinato territorio di Missione, da curare con personale e mezzi propri. Nella congregazione del 12-13 Ottobre 1908, i Superiori Cappuccini dell’Umbria chiesero ufficialmente a Roma “una vera Missione, estera, fuori d’Europa, preferibilmente in America e possibilmente in Brasile”. Furono accontentati subito, e il 30 Giugno 1909 salparono dal porto di Napoli quattro frati: P. Domenico Anderlini da Gualdo Tadino, P. Ermenegildo Ponti da Foligno, P. Agatangelo Mirti da Spoleto, Fra Martino Galletta da Ceglie Messapico, che giunsero a Manaus il 26 Luglio successivo. Impossibile descrivere in poco spazio le difficoltà gravissime che si aprirono loro innanzi, difficoltà che avevano fatto indietreggiare tanti altri Missionari e congregazioni religiose: senza una casa propria e nell’impossibilità di acquistarla, con gravi problemi nella Curia della sterminata Diocesi di Manaus, di fronte alla sordità delle autorità civili spesso indifferenti e talvolta ostili, bersaglio dell’avversione dei grandi proprietari (patrões) che sfruttavano la gente senza pietà e vedevano nel Missionario una minaccia per i propri illeciti, in un ambiente estremamente insicuro con distanze proibitive a fronte di una assoluta mancanza di mezzi e possibilità economiche… E il clima, perennemente caldo umido, fortemente debilitante per organismi non assuefatti, con le malattie endemiche del luogo con le quali i Missionari cominciarono a fare i conti subito e in modo drammatico: un giovane frate di Milano che era venuto a dare una mano, P. Giulio da Nova, moriva di febbri malariche a ventisei anni, il 7 Maggio 1910; P. Agatangelo da Spoleto, già ripetutamente colpito da malaria e beri-beri, si ammalava di febbre gialla e moriva all’età di 27 anni… E così si ripeterà secondo una trafila ininterrotta: chi per anni dovrà intercalare periodi di cura a periodi di lavoro; chi sarà costretto a rientrare in Italia; chi rimarrà debilitato per tutta la vita. Rileggendo le cronache di quei primi anni, si rimane sconvolti. Ma questi intrepidi pionieri non si arresero di fronte a niente. “Questa è opera di Dio perché incontra troppi ostacoli fin dal principio”, scrive P. Domenico da Gualdo Tadino il 29 Settembre 1909. “Ci costerà sacrifici, ma siamo partiti dall’Italia con l’animo di sopportarli, e non di sfuggirli”. E a chi gli domandava cosa avessero fatto in quegli anni in Amazzonia, rispondeva: «Siamo rimasti!».

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