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Voce Serafica Assisi

Fra Paulo, il cappuccino indio

22 ottobre 2021
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Di ritorno dal Sinodo per l’Amazzonia con un nuovo slancio missionario al servizio degli ultimi

«Siamo tornati in Amazzonia con il desiderio rinnovato di arrivare nei luoghi più lontani, come i frati cappuccini arrivati da Assisi oltre un secolo fa. Perché questa è la sfida della nostra vocazione: essere “presenza” nella vita degli ultimi, con speranza e con gioia».
Fra Paulo Xavier Ribeiro è entusiasta per i lavori del Sinodo dei vescovi dedicato alla regione panamazzonica. «È stato vero e proprio ossigeno - ci dice - per la nostra vita di francescani».
Era arrivato in Vaticano per l’assemblea speciale da Manaus, la capitale dell’ampia regione di Amazonas.
Situata nella fascia settentrionale del Brasile, è una delle località più utilizzate per entrare nella foresta amazzonica, navigando lungo le “autostrade fluviali”. Da bambino, con la sua famiglia, fra Paulo ha viaggiato proprio lungo il Rio delle Amazzoni, o Rio Solimões come lo chiamano i brasiliani, per raggiungere Manaus, lasciandosi alle spalle il paese natale di Amaturá.
«I miei genitori cercavano qualcosa di più e di meglio - ci racconta - per i loro otto figli. I frati cappuccini li abbiamo conosciuti proprio in parrocchia ad Amaturá. Lì è nata la mia vocazione, perché volevo essere presenza di amore accanto ai poveri e ai bisognosi». Fra Paulo oggi ha 56 anni ed è parroco di São Sebastião, proprio a Manaus, nella fraternità cappuccina che condivide con fra Moacir Busarello e fra Salvador Moreira. Sul suo volto buono e sorridente si mescolano insieme i tratti delle popolazioni indigene e quelli dei missionari francescani.
«I frati cappuccini - spiega - sono persone che hanno lasciato la loro vita, la famiglia, terra e cultura, per portare qui il Vangelo e la buona novella, con la modalità di san Francesco, con semplicità, facendosi fratelli, rispettando la cultura altrui. In questi 110 anni di presenza cappuccina in Amazzonia, le cose sono cambiate molto e oggi la gran parte degli indios vive nelle grandi città».
Perché dalla foresta tutta questa umanità si trasferisce nelle città? Cosa cerca?
«Come è accaduto per la mia famiglia, tutti vogliono migliorare la propria situazione. Cercano lavoro, l’istruzione per i figli, un futuro diverso. E poi sono spinti da incendi e deforestazione, o cacciati dai grandi produttori».
Cosa trovano quando arrivano?
«Sono “invisibili”, guardati con indifferenza e lontananza. Arrivano qui in cerca di promozione umana, sociale ed economica, e invece non vengono considerati da nessuno e questo provoca molti problemi. La città è grande e loro si concentrano nelle periferie, dove c’è delinquenza, prostituzione, tratta delle persone, droga. Situazioni molto difficili. Nella nostra parrocchia di San Sebastiano, che è in centro, vengono a chiedere aiuto. I bisognosi sono tanti ma le nostre possibilità sono limitate. Siamo organizzati con la Caritas e cerchiamo di dare loro dignità, insieme agli aiuti materiali. Abbiamo anche due comunità per disabili e indigenti, organizzate per dare una mano alle famiglie in difficoltà. Due realtà che abbiamo dedicato a san Francesco e santa Chiara».
I più poveri tra i poveri. In che modo voi frati cappuccini siete vicini agli indios?
«Oltre alle attività caritative, facciamo di tutto per farli tornare “visibili”. La Chiesa qui ha organizzato una pastorale indigena, proponendo ai singoli popoli e tribù attività solidali e rispettose della loro cultura. Ci facciamo compagni di strada in questo cammino di riconoscimento dei loro diritti».
Fra Paulo, come è arrivato al Sinodo panamazzonico?
«Fin dalla convocazione nel 2017 da parte di papa Francesco abbiamo avuto quasi l’impressione di un invito da parte dello Spirito Santo. Il papa è stato in Perù e ha parlato della situazione degli indios, ha detto che devono essere ascoltati, la loro cultura trovare uno spazio, e la Chiesa stare in mezzo a loro. È lo stesso Spirito che guida l’azione della Repam, la Rete ecclesiale panamazzonica formata  da Brasile, Venezuela, Guyana francese, Guyana britannica, Suriname, Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia. I cappuccini sono stati invitati a fare parte di questa rete e così ho cominciato a collaborare alla preparazione del Sinodo. Poi, a Roma, mentre i padri sinodali erano impegnati con le riflessioni e i dibattiti, ci siamo organizzati per pregare, riflettere, accogliere le persone che venivano a parlare di Amazzonia nella “casa comune” che avevamo allestito nella chiesa di Santa Maria in Transpontina».
Connessione e conversione sono le due principali “parole-chiave” nel documento finale del Sinodo. Che significano?
«Nell’enciclica Laudato si’, papa Francesco ci dice che tutto è connesso, non c’è niente delle cose che facciamo che non si intrecci con altro: il grido della terra e quello dei poveri, distruzione del Creato e sterminio della vita umana, annuncio della buona notizia di Gesù e testimonianza. Tutte le nostre azioni devono andare in questa direzione. E per farlo c’è bisogno di conversione, per ciascuno di noi, ogni giorno, senza paura, ripensando il nostro modo di fare, la nostra presenza e il nostro cammino».
Prima di salutare fra Paulo, scorgiamo sulle sue dita un anello di legno scuro, molto particolare e gli chiediamo di cosa si tratta...
«È un anello di tacum, una palma amazzonica. Lo fanno nei villaggi indios le donne più anziane. Da un paio di secoli identifica le popolazioni più povere e chi sceglie di stare accanto a loro, promuovere il rispetto per la Madre Terra e per la causa indigena. Per questo, durante il Sinodo, ne abbiamo donato uno a papa Francesco».

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