La lingua della poesia è la lingua dell’Assoluto. Celo dimostra san Francesco con il Cantico delle creature dove si loda il Signore in armonia con la natura e in un rapporto di fratellanza e sorellanza universale con gli uomini e le donne del mondo. I versi del Poverello di Assisi, scritti nell’umbro volgare di allora, tessuti “come una tonaca su misura”, non potrebbero essere diversi da quelli che sono, parola per parola, sillaba per sillaba, altrimenti non ci toccherebbero il cuore come accadde per i primi fraticelli del “cenacolo francescano”. Se, infatti, nella narrativa o nel giornalismo i vocaboli si possono sostituire, spostare, modulare, senza stravolgere il significato di una frase o di un racconto, cambiare anche un solo sostantivo o un aggettivo in un testo poetico, ne annullerebbe il senso, ne ridurrebbe la forza evocativa. Farebbe crollare, cioè, l’intera impalcatura.
Dunque, san Francesco è da considerarsi un poeta alla stregua di Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Giacomo Leopardi, Mario Luzi?
È poeta chi esercita l’arte della parola. Perché l’esistenza si può conoscere attraverso le parole adeguate che sono state usate per raccontarla. Tutti quelli che lei ha nominato hanno fatto così, dunque anche san Francesco, il cui stile è lo stesso di tanti “trovatori” del Medioevo. Il Cantico non è altro che la sua anima descritta in parole, un’opera peraltro ricca di una sua originale musicalità. È la preghiera che, attraverso la forma, diventa poesia. I poeti, come san Francesco, vanno sempre al cuore delle questioni. E senza “ragionar d’amore”, nulla si intende di lui.
Secondo monsignor Luigi Giussani, una figura a lei molto cara della quale dice di “aver vissuto da vicino la paternità”, Giacomo Leopardi era cristianissimo: un’affermazione che rovescia l’idea, diffusa anche in certe aule scolastiche, che il poeta di Recanati fosse invece la massima espressione del “pessimismo cosmico”. Insomma, un ateo che a causa della sua deformità, disprezzava la natura, in cui tutto si rivelerebbe vano e senza speranza…
Leopardi era un cristiano eccome! Anzi, potremmo dire che era anche “francescanissimo”. Basta rileggere La ginestra, dove invita l’essere umano ad essere “mendìco”, umile, non vanaglorioso. Leopardi chiede, prega, ammira la luna e le stelle, sente l’io che si confonde quasi con il niente, proprio come san Francesco… “Ed io chi sono?”, si chiede nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. È il senso dell’essere minimo.
Rondoni, lei ha scritto con Guidalberto Bormolini il bel libro Vivere il Cantico delle creature. La spiritualità cosmica e cristiana di san Francesco. Ma è davvero possibile, nel mondo di oggi, di fronte alla corruzione dell’ambiente e all’uomo che sembra essersi perduto nell’ideologia del nulla, vivere quotidianamente quello che il Poverello di Assisi ci ha insegnato?
Certo che si può vivere! Anche ai tempi di san Francesco le cose non andavano un granché bene. Il francescanesimo delle origini è possibile sempre. Il Cantico appartiene ai grandi misteri della poesia, ha una carica di grande contemporaneità e fa capire che san Francesco non disprezza la materia e non è nemmeno spiritualista. Nella composizione, un testo-fiaccola da passarsi in giro per le strade, la natura non viene mai considerata astrattamente “madre”, come avviene invece in certe ideologie “green” di oggi. Altrimenti è facile che da madre, in presenza di eventi come una disgrazia o una grave malattia, si trasformi in “matrigna”. In san Francesco, invece, tutta la realtà è “buona”, in quanto segno del Creatore, persino la morte, che lui chiama “sorella”.
Vivere in povertà è l’altro messaggio che ci arriva dal Serafico, che si è spogliato di tutto per seguire il Signore.
Ma la povertà non va intesa, in questo caso, come miseria. Lui non era un moralista, non se la prendeva con quelli vestiti bene, non era contro i ricchi ma chiedeva loro di cambiare atteggiamento, di non credersi i padroni del mondo ma di riconoscere di essere essi stessi creature dell’Altissimo e di vivere come tali. Il male è segno di altro, si manifesta quando a Dio si sostituiscono i propri averi, il denaro, il potere. Se sbagli “padre”, sbagli la vita, si potrebbe dire. E anche in questo il suo messaggio è attualissimo.
Poi san Francesco ci ha insegnato che è possibile, anzi necessario perdonare, che il perdono è un’esigenza di misericordia di fronte alla nostra povertà di uomini e donne che sbagliano…
Il perdono è una qualità preziosa che la natura non ha, è il segno della libertà, è gratuito, come l’arte. Ma il perdono di cui parla san Francesco è civile, pubblico. Come si sa, lui favorì la riappacificazione tra un vescovo e un podestà. Il perdono, quindi, anche in questo caso, è un segno dell’“Altissimu” che l’essere umano, fatto a sua immagine e somiglianza, possiede. Non può essere considerato, però, come dare una pacca sulle spalle, o fare una semplice passeggiata in giardino perché è un gesto che va compiuto con la consapevolezza di “infirmitate e tribulazione”. Il perdono nella cultura di oggi è difficile, esiste un darwinismo sociale per cui la fragilità è nascosta, non è accolta, e viene affrontata in termini patetici. Il Cantico invece è un testo poetico che evoca il perdono come massima qualità umana.
Anche la Provvidenza ha un posto di primo piano nel pensiero e nell’esperienza francescana. Nei Promessi sposi è il motivo conduttore e il cappuccino fra Cristoforo ne è strumento determinante. Manzoni, infatti, è un altro “francescanissimo” della letteratura italiana…
Ma la Provvidenza come la intendeva lui e secondo la visione cristiana non è un soccorso improvviso e inaspettato. È, invece, un modo per misurare la vita, perché, ad esempio, anche un bimbo che muore affogato nel Mediterraneo ha un valore. La Provvidenza, voglio dire, non è un modo per distinguere la fortuna dalla sfortuna.
Nel documentario Sacritalia lei ha fatto un viaggio nel Belpaese alla ricerca dei luoghi che richiamano il Mistero, tra religiosità popolare, tradizioni, personaggi e “bellezze” nascoste o che sembravano non esistere più. Qual è stata l’esperienza che l’ha maggiormente colpita?
Tutti i poeti sono cercatori del sacro, da Dante (che era, peraltro, un terziario francescano) a Thomas Stearns Eliot, a Pier Paolo Pasolini, o scrittori come Flannery O’Connor e Cormac McCarthy, perché è l’unica cosa da opporre al consumismo e alla “terra desolata”. Ecco, il senso del mio viaggio è stato quello di cogliere i segni antichi e recenti del sacro, un elemento che fa parte della natura umana ma che spesso viene dimenticato. Al santuario di San Michele Arcangelo, sul promontorio del Gargano, un posto quasi nascosto sotto terra, mi sono commosso fino a stendermi per terra. Di fronte alla statua del santo con la spada in mano mi sono chiesto: “Quanti angeli hanno combattuto per me?”.
di Fulvio Fulvi
Tratto dal mensile n. 09/2024 di Frate Indovino